23 marzo 2007

Solidarietà al Cso Bruno dai Centri Sociali dell’Emilia Romagna

La storia sembra ripetersi con la stessa arroganza e autorità del potere, che sia una giunta comunale del Trentino o di qualche comune dell’Emilia Romagna, sembra non esserci nessuna differenza. Assistiamo, infatti, in Italia come nel resto d’Europa, ad una campagna repressiva e di criminalizzazione, se non annientamento, di quegli spazi di libertà e di autonomia come il Centro Sociale Bruno, un luogo reale di costruzione di relazioni e di percorsi, da per e con la popolazione trentina, una vera e propria risorsa di democrazia. Noi, come centri sociali e realtà della Regione Emilia Romagna, rispondiamo al monito " GUAI A CHI CI TOCCA" un monito che da Copenaghen arriva fino a Trento portando con se’ quel potenziale di lotte e di ribellione che ci accomuna tutti, nessuno escluso.

Esprimiamo, pertanto, non solo piena solidarietà ai compagni e alle compagne di Trento ma ci rendiamo fin da ora disponibili per supportarli in qualsiasi azione vogliano mettere in atto per riprendersi il proprio spazio di autonomia e di lotta..

Lunga vita al Cs Bruno di Trento.

Laboratorio Aq16 Reggio Emilia
Laboratorio Sociale Occupato Paz Rimini
TPO Bologna
Passepartout Bologna
ass.YaBasta! Parma

22 marzo 2007

A Trent’anni da Habitat I: basta al modello neoliberale delle città!



vi segnaliamo quest'articolo dal sito I.a.i.




buona lettura!

nuova occupazione di case del collettivo Sottotetto a Reggio- Emilia

Oggi è stata restituita alla collettività un’altra delle troppe case (105 solo nel quartiere Compagnoni) che ACER e amministrazione comunale di Reggio Emilia da anni tengono vuote in attesa di speculazione. La casa verrà abitata da una famiglia, quella della signora Franca, che già il 21 febbraio aveva reso pubblica la propria situazione abitativa con una conferenza stampa. Il percorso della famiglia, dalla denuncia della propria situazione e dell’indifferenza dei servizi all’autoassegnazione di oggi, è avvenuto in collaborazione col Collettivo Sottotetto , nato nella primavera scorsa per rivendicare il diritto alla casa e denunciare le speculazioni edilizie in atto sul patrimonio immobiliare pubblico. Non è la prima volta che il Collettivo sceglie la strada dell’autoassegnazione : nella stessa via sono stati precedentemente occupati altri tre appartamenti, uno dei quali serve da "Sportello per il Diritto alla Casa";è proprio attraverso l’attività di inchiesta agita dallo sportello che la famiglia di Franca è entrata in contatto col collettivo . L’autoassegnazione avviene nel quartiere al centro del dibattito sulle politiche abitative portate avanti dal Comune. E’ di ieri la notizia dello sblocco dei finanziamenti sul progetto di riqualificazione di Via Compagnoni: riqualificazione che, secondo gli occupanti, risponde più a interessi economici privati che ai reali bisogni dei cittadini . "Il diritto alla casa non fa parte della logica di questo progetto che, oltre a prevedere una diminuzione di alloggi popolari , ne alza la soglia di accesso facendo ricadere sugli abitanti i costi di ristrutturazione : saranno sì case eco-sostenibili, ma in una città in cui sempre più persone si trovano nella situazione di Franca, è di case reddito-sostenibili che ci sarebbe bisogno".

comunicato del collettivo sottotetto:

Oggi è stata restituita alla collettività un’altra delle troppe case (105 solo nel quartiere Compagnoni) che ACER e amministrazione comunale di Reggio Emilia da anni tengono vuote in attesa di speculazione. La casa verrà abitata da una famiglia, quella della signora Franca, che già il 21 febbraio aveva reso pubblica la propria situazione abitativa con una conferenza stampa. La signora Franca, la figlia e la nipote minorenne e studente, con un solo stipendio e una pensione minima, non sono più in grado di sostenere una spesa mensile di 600 Euro per il solo canone di locazione. La denuncia di questa famiglia, sostenuta dallo sportello per i diritti alla casa, del Collettivo sottotetto, non ha ottenuto alcuna risposta dagli organi competenti (assistenti sociali, Comune,…) ma solo il consiglio di iscriversi alle “liste” per l’accesso al canone agevolato.

Ma cosa sono in realtà queste liste?

Il Comune di Reggio Emilia (delibera n.264 del 11/10/2006) “a fonte della indisponibilità di aree e/o immobili di proprietà pubblica” prevede una collaborazione con soggetti privati ai quali permette di “realizzare un indice aggiuntivo [di costruzione, ndr.] pari allo 0.05 mq/mq da destinarsi all’affito convenzionato con il Comune”. La convenzione consiste nell’impegno da parte dei privati di affitare lo 0.05 a canoni ridotti (i primi disponibili vanno dai 200 al 630 euro) per quindici anni (trascorsi i quali gli immobili torneranno pienamente privati) con contratti di libero mercato cui sarà possibile accedere tramite l’iscrizione in “liste” dalle quali il privato potrà scegliere l’inquilino più adatto. Questa è l’edilizia popolare del futuro? Un’edilizia di vetrina. Non graduatorie quindi, ma liste, non un Comune che si fa garante e responsabile di un diritto, ma un’amministrazione che diventa agenzia immobiliare, non patrimonio pubblico che al contrario viene venduto e/o abbattuto, ma edilizia privata, cementificazione, speculazione. L’amministrazione e gli assistenti sociali che lavorano a contatto con i cittadini, anziché dare alle persone gli strumenti per riconquistare la propria autonomia e dignità, adottano solo interventi marginali che non risolvono l’esigenza abitativa.

Nonostante la disponibilità enorme di case sul territorio la città di Reggio Emilia è quinta in Italia per le richieste di esecuzione di sfratto, con una richiesta ogni 135 famiglie (inchiesta del Sunia, febbraio 2006). Gli alloggi di edilizia residenziale pubblica sono appena 3972 in tutta la provincia, parte dei quali verrà venduto in una qualche asta mentre in graduatoria 1500 famiglie (senza contare chi ha rinunciato ad iscriversi) aspettano da anni l’assegnazione di un alloggio popolare. Guardandosi intorno si potrà facilmente notare che non tutti, in questa città a prima vista ricca con un bel ponte firmato “Calatrava” o mega complessi “Giglio e multisala”, hanno la fortuna di avere un tetto sulla testa. L’ultimo esempio di questa tendenza è la notizia, uscita ieri sui giornali locali , che sono stati sbloccati i fondi necessari alla cosiddetta riqualificazione del quartiere compagnoni. Un progetto spacciato come un’iniziativa partecipata e condivisa dagli abitanti di quartiere (una strategia istituzionale che ha preso il nome di Cdq ," contratti di quartiere" ) che in realtà, come sempre, sono stati messi davanti al fatto compiuto. E che nei fatti dal progetto avranno tutto da perdere: gli alloggi pubblici diminuiranno di numero e ne aumenterà il canone e la storica rete sociale del quartiere verrà smantellata. Il risultato sarà un bellissimo quartiere -vetrina che non risolverà di certo il problema abitativo in questa città, sopra-vissuta sempre più da precari, non solo nel lavoro ma anche nella vita come pensionati, universitari, migranti e lavoratori delle coop sociali,che vogliono essere protagonisti sociali e non spettatori. Per questo chiediamo al Comune di Reggio Emilia di dare un segnale concreto e non di vetrina bloccando gli sfratti, gli abbattimenti e le aste alle case popolari spesso lasciate all’abbandono. Non vogliamo vedere nei prossimi anni la crescita di nuove barraccopoli e sosteniamo il diritto alla casa come un diritto fondamentale, che dà alle persone la possibilità di una vita degna.

Collettivo Sottotetto

17 marzo 2007

Passepartout festeggia 3 anni di occupazione

In una giornata di fine inverno come quella di oggi, giorno più e giorno meno...3 anni fa nasceva il progetto "passepartout".

La sera, luce di candele e birrette per festeggiare. Per terra, nei primi due appartamenti occupati c'erano i giornali delle bombe di Atocha a Madrid, in piena guerra globale, il regno del Berlusca era al suo apogeo ed il Kofferatto si affacciava all'orizzonte di una Bologna che parlava ancora di movimento.

Sono passati tre anni.

Alla faccia di chi ci vuole male!

auguri a tutti/e!

16 marzo 2007

La città come bene comune è la città in comune. Articolo di Marvi Maggio

Il programma 20.000 case in affitto come modello? Un rischio da sventare e ben altre politiche urbane da promuovere.
La città come bene comune è la città in comune.

Marvi Maggio

La critica al programma 20.000 case in affitto in corso di realizzazione nel Comune di Firenze [1]è diventato pienamente attuale per due motivi. Il primo è che il TAR ha bloccato uno dei cantieri, quello di via Arnoldi, dando ragione ai residenti e dimostrando che se le amministrazioni pubbliche e le sovrintendenze non sanno difendere gli interessi collettivi e i beni comuni, quando la misura è colma si trovano inaspettate tutele. Il secondo è che la Regione Toscana intende assumere come modello per rispondere alla questione abitativa, il tipo di partnership pubblico privato promosso con il programma in questione, di cui abbiamo puntualmente descritto i risultati nell’articolo citato[2]. La sua critica assume così un valore non solo contingente ma strutturale.
Dopo l’approvazione definitiva e l’inizio dei lavori nelle aree fiorentine del programma 20.000 case in affitto, è stato attivato un altro programma con modalità del tutto simili. Si tratta del “Programma integrato di intervento per l’incremento e diversificazione dell’offerta di abitazioni in locazione” facente anch’esso parte del “Programma regionale di edilizia residenziale pubblica 2003-2005” della Regione Toscana. Anche in questo caso al bando regionale indirizzato ai comuni toscani ha risposto il Comune di Firenze che ha predisposto un proprio avviso pubblico rivolto ai privati per selezionare proposte di intervento. Fra le proposte avanzate l’unica “proposta ammissibile” è stata quella presentata dalla Società Affitto Firenze riguardante l’area Canova Giuntoli nella quale è prevista la realizzazione di 20 alloggi di edilizia residenziale agevolata (20 alloggi, 1.700 mq. di superficie complessiva, contributo richiesto 948.600 euro su un costo complessivo di 2.108.000 euro); 24 alloggi di edilizia residenziale non agevolata, cioè privata (alloggi di 97 mq. medi e costo complessivo di 4.656.000 euro) e un intervento commerciale e servizi alla persona (150 mq. con costo complessivo 300.000 euro), il tutto attuato da Affitto Firenze. Il programma prevede anche la realizzazione di 20 alloggi da parte del Comune e un centro sociale di quartiere. Come d’uso il programma “risulta in contrasto con le previsioni del vigente PRG” e “pertanto la sua realizzazione richiede una apposita variante al PRG”. L’avvio del procedimento della variante è del 11/7/2006. Le destinazioni delle aree coinvolte nel PRG vigente erano “sottozona G2 con simbolo attrezzatura pubblica amministrativa di progetto”, “sottozona G1 con simbolo verde pubblico di progetto”, porzione di “area classe 9: verde privato e aree di pertinenza di edifici pubblici e privati” e parte di viabilità esistente. Con la variante l’area diventa “zona omogenea C sottozona C1.2 – di nuovo impianto a bassa densità all’interno di un piano urbanistico esecutivo di iniziativa pubblica con conseguente spostamento del perimetro del centro storico minore all’interno del quale, attualmente si trova l’area destinata a classe 9”. In questo caso con la giustificazione delle case da costruire, oltre all’usuale eliminazione delle aree destinate a servizi da standard obbligatori (aree G), si arriva anche a modificare il limite del centro storico: in effetti una volta distrutto quello che ne faceva parte il limite sarà effettivamente quello proposto. Da rilevare che questo progetto ha ricevuto l’approvazione della Regione Toscana e l’ammissione al finanziamento è stata approvata con deliberazione giunta regionale n. 851/1075 del 6/12/2005 e con decreto dirigenziale regionale n. 1479 del 27/3/2006.

La Regione Toscana sta preparando lo “Statuto dell’edilizia sociale” e il modello a cui dare sistematicità è quello del Programma regionale 2003-2005 di cui fanno parte le “20.000 case in affitto” e le case in affitto “calmierato”.
Viene da chiedersi come sia possibile utilizzare lo slogan “C’è del nuovo nella politica della casa”, per l’ennesima riproposizione del vecchio, almeno di 20 anni, e ormai comunemente ritenuto fallimentare intervento in “partenership pubblico privato”. Fallimentare non per il privato, che ottiene tutte le facilitazioni di un intervento pubblico per realizzare il suo profitto/rendita immobiliare, ma per il bene pubblico, per quello che si ottiene per i bisogni sociali. A dircelo è per esempio Susan Fainstein, esperta di fama mondiale, che ha analizzato i risultati di questo connubio negli anni 80 nei paesi che per primi se ne sono fatti promotori: il Regno Unito e USA[3]. Susan Fainstein sulla base di una indagine su una serie di casi sottolinea come questo tipo di programmi, che possono consentire concessioni edilizie in deroga alla zonizzazione vigente, o un aumento di densità edificatorie, o sgravi fiscali per gli operatori privati in cambio della realizzazione di abitazioni sociali e servizi pubblici siano risultati poco redditizi per la collettività. (Susan Fainstein, Promoting economic development. Urban planning in the United States and Great Britain, APA Journal, n.22 1991 e Smith 1989). Analogo il giudizio di Smith in merito alle politiche promosse da alcune città californiane (M.P. Smith, “The use of linked development policies in U.S. Cities”, in N. Parkinson, B. Foley, D.R. Judd (editor) Regenerating the Cities. The UK Crisis and the US Experience, Scott Foresmann, Glenview, 1989).
In tema di partnership pubblico privato va poi rilevato un trucco che rischia di inficiare molti calcoli economici di fattibilità finanziaria e di distribuzione di oneri e compiti fra pubblico e privato. Troppo spesso i calcoli delle imprese all’interno delle “partnership pubblico privato” invece di assumere il prezzo delle aree (la rendita urbana) come un guadagno, lo assumono come un costo inficiando tutti i calcoli. Infatti furbescamente le imprese immobiliari considerano solo la fase finale del processo, quella di edificazione, come se l’impresa promotrice comprasse i terreni a valori corrispondenti alla destinazione a nuova costruzione. Al contrario il processo decisionale e realizzativo inizia con l’idea del progetto e spesso l’area è comperata prima di ottenere la variante e l’uso del suolo desiderato ed è quindi il proponente/costruttore ad appropriarsi della rendita e non il proprietario iniziale. Oppure l’area è stata comperata molto tempo prima a prezzi agricoli e poi quando è il momento, ottenendo le destinazioni d’uso più lucrose si incamera la rendita. Inoltre le imprese ascrivono fra i costi gli interessi per i prestiti presso le banche, mentre siccome di prassi vendono le case prima di costruirle, i costi per gli interessi li pagano i compratori e non loro. Costi gonfiati che fanno sì che il prof Roberto Camagni (professore ordinario di Economia urbana al Politecnico di Milano) in una recente conferenza abbia parlato di un profitto del 9% denunciato dai costruttori dei programmi integrati a Milano contro uno reale del 97%.

I rischio è che la politica abitativa proposta dalla Regione Toscana rafforzi la segregazione sociale dove c’è e la crei dove non c’è ancora. Infatti le finalità dello statuto dell’edilizia sociale[4] sono:
- le soluzioni al disagio abitativo vanno individuate “secondo articolazioni di area vasta”, a prima vista sembra positivo perché appare che il problema venga affrontato alla scala appropriata, purtroppo è solo un escamotage, infatti nel concreto vuole dire che nell’area vasta il problema potrà essere “risolto”, guarda caso, nelle aree più periferiche o comunque meno pregiate per il mercato;
- valorizzare il ruolo dell’associazionismo, del volontariato e “di tutti i soggetti in grado di concorrere alla ricerca di soluzioni alloggiative per situazioni di maggiore gravità e urgenza”, che possono comprendere l’accompagnamento sociale: questa scelta comporta una grave segregazione sociale e un trattamento da minorati per persone che invece sono semplicemente (e drammaticamente) prive di reddito, di proprietà e/o di un lavoro congruamente retribuito;
- sollecitare e orientare “la partecipazione dei privati nella realizzazione di programmi integrati di riqualificazione urbana finalizzati all’incremento e alla diversificazione dell’offerta di abitazioni a canone calmierato”; per sollecitare e orientare le amministrazioni pattuiscono scambi ineguali e cessione gratuita di beni comuni;
- riferire “la fissazione dei requisiti per l’accesso e la permanenza nel patrimonio residenziale pubblico ai caratteri quali-quantitativi e localizzativi dei diversi segmenti dell’offerta di edilizia sociale e in ragione delle condizioni familiari, economiche e alloggiative dei richiedenti, da parametrarsi in modo uniforme su tutto il territorio regionale”; di fatto si tratta di un ingresso trionfale delle ragioni e dei criteri del mercato immobiliare nell’edilizia residenziale pubblica. In parole semplici significa estorcere quanto più possibile dall’inquilino e legare ogni qualità a un prezzo;
- “articolare l’offerta di abitazioni in locazione a canoni regolati in ragione dei diversi segmenti della domanda sociale, in funzione di una più equa e razionale utilizzazione dell’edilizia residenziale pubblica…”[5], ma in una intervista[6] l’assessore regionale Conti è ancora più esplicito: invocando “una politica legata a un’idea di città che sia strumento di attuazione delle strategie, non di svalutazione delle aree, come accadeva in molti casi per i PEEP” (ndr piani di edilizia economica e popolare) afferma che “questo è possibile attraverso un ampliamento e una diversificazione dell’offerta pubblica di abitazioni che è la condizione per una più equa e dinamica utilizzazione del patrimonio a canone sociale e un modo per favorire l’uscita dall’Erp di chi pur non avendo più i requisiti di reddito non è comunque in grado di accedere al mercato privato”. Vuole dire lasciare nelle case a canone sociale (di proprietà di Casa Spa) solo le persone che hanno un reddito inferiore al massimo consentito (13.000 euro annue, somma dei redditi di tutti i conviventi, computati al 60 % per lavoratori dipendenti e pensionati). Apparentemente giusto in realtà crea ghettizzazione e non certo integrazione: nelle case a canone sociale dovranno abitare solo casi di povertà estremi.
- L’unico vero vincolo per gli interventi di edilizia residenziale pubblica (ERP) è l’immediata cantierabilità, tempi certi per inizio e ultimazione dei lavori.

L’assessore regionale Conti nell’intervista citata[7] indica come positivo il fatto che il Comune di Firenze abbia introdotto la norma che in ogni nuovo insediamento il 20% sia destinato a Edilizia residenziale pubblica. Ma vediamo di che 20% si tratta. Nel caso dell’area Belfiore su via Benedetto Marcello, ex Fiat, gestita dalla Società Belfiore Spa (posseduta al 100% da Fidia SPA, il cui presidente Riccardo Fusi è il presidente della Baldassini, Tognozzi e Pontello) destinata ad albergo, il 23/2/2005 (DGC 2005/G/00966 – 2005/01145) un accordo fra società Belfiore spa e Comune prevede di riservare alla “residenza, nella forma della locazione abitativa temporanea (ndr. per 10 anni), una quota pari al 20% della superficie utile lorda complessiva dell’intervento come individuato nelle tavole… del piano di recupero”. Ma prevede di realizzare gli alloggi in affitto temporaneo non nell’area Belfiore, ma “in altro complesso immobiliare in corso di costruzione posto in Firenze tra via Toscanini e la via Respighi..e precisamente negli alloggi… di proprietà Società parco delle cascine spa con sede in Firenze via Baracca 9”. Mentre l’area ex Fiat di viale Belfiore si trova nei pressi della prevista stazione dell’alta velocità, l’area in via Toscani, in origine industriale dimessa ex SIME, è più decentrata.

Va aperta una parentesi sull’uso dei termini che talvolta rende poco chiaro il bilancio fra edilizia davvero sociale, a canone sociale in affitto, ed edilizia in vendita costruita da cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici. L’edilizia residenziale pubblica comprende edilizia sovvenzionata, cioè quella con i canoni sociali, ma anche l’edilizia agevolata e convenzionata (entrambe il più delle volte case da cedere in proprietà costruite da parte di cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici). La terminologia più antica che data 1919[8] prevede la distinzione fra le case economiche e quelle popolari. Le prime erano le case di proprietà del Comune o degli IACP, assegnate in locazione, destinate agli operai. Le case popolari, destinate agli impiegati, erano costruite da cooperative e assegnate ai soci in proprietà anche individuale (oppure erano assegnate in affitto nel caso di cooperative a proprietà indivisa). Un po’ di confusione ha creato il fatto che ci sono case sovvenzionate (cioè con pesanti sovvenzioni pubbliche a fondo perduto) che sono cedute in proprietà. Ora si è aggiunto il termine housing sociale con il quale talvolta si designano le case da affittare a canone calmierato, costruite da imprese e cooperative con finanziamenti pubblici e facilitazioni di vario tipo. Quindi quando si leggono i dati sull’edilizia residenziale pubblica bisogna considerare che comprendono anche la costruzione sussidiata di case da vendere a prezzi un po’ inferiori a quelli di mercato e che poi, dopo 5 anni possono essere vendute sul libero mercato, con qualche vantaggio individuale, ma anche con un costo sociale che non contribuisce certo a risolvere la questione abitativa..

Nei discorsi sulla casa da un po’ la Regione si è accorta che ci sono “fasce sociali sin qui escluse da ogni provvedimento perché collocate appena al di sopra delle soglie minime per l’accesso agli alloggi di edilizia sociale ma impossibilitate a muoversi nel libero mercato con i prezzi inaccessibili che esso propone”. Per questa fascia di popolazione prevede gli alloggi a costo intermedio del tipo delle 20.000 case in affitto: edilizia agevolata cioè con finanziamenti pubblici e prezzi di affitto controllato, che risultano comunque troppo alti e ben al di sopra di quelli della vecchia “sovvenzionata”.
Se numerosi gruppi sociali che non possono accedere al mercato non sono ammessi neppure all’edilizia a canone sociale ci sono due semplici soluzioni che agiscono su questi due supposti vincoli che una Regione ha tutto il potere di correggere, visto che ha competenze nella programmazione delle risorse destinate al settore dell’edilizia residenziale pubblica; nella gestione ed attuazione degli interventi, nell’assegnazione degli alloggi e la determinazione dei relativi canoni:
- uno è modificare le regole di accesso all’edilizia a canone sociale, elevando il livello massimo di reddito consentito e ammettendo a pieno titolo anche i singoli, i giovani, gli anziani, le coppie senza figli e altri tipi di convivenza anche in gruppo. La logica democristiana e buonista ha sempre dato la precedenza a chi aveva numerosi figli, più erano meglio era, e alla povertà (chi non era abbastanza povero doveva/poteva comprasi la casa con i mutui agevolati). Ma anche chi non ha figli e ha redditi bassi non può accedere al mercato. O meglio può accedere al mercato a patto di comprimere la qualità dell’abitare attraverso il sovraffollamento (5/10 in un alloggio), o comunque attraverso la coabitazione forzata con familiari o amici, o attraverso l’utilizzo di locali che non sono o non dovrebbero essere abitabili (cantine, soffitte etc).
- regolare gli affitti (tutti) e imporre che non superino un tetto dipendente dalla qualità dell’alloggio (che dipende dal costo di produzione dell’alloggio) e non dalla localizzazione il cui prezzo dipende da una qualità prodotta (e pagata) collettivamente e non dal costruttore. La regolazione degli affitti nei Paesi Bassi dall’inizio del XX secolo ha seguito questa strada e ha permesso un vasto accesso alla casa in affitto a prezzi veramente accessibili. Contemporaneamente, visto che sembrano mancare, è necessario varare apposite leggi e regolamenti che puniscano duramente (con l’esproprio a costo zero) chi affitta locali non abitabili, assegnando la responsabilità dell’uso reale di quanto viene affittato ai proprietari e non agli inquilini. Recentemente abbiamo letto che famiglie vivevano in cantine pagandole 600 euro al mese. Fatti di questo genere non devono essere tollerati (ricordate, la legalità?).
Contemporaneamente è ovviamente necessario realizzare edilizia in proprietà pubblica da affittare a canoni sociali in quantità sufficiente a risolvere la domanda, come si propone nella parte conclusiva del saggio già citato nella nota 1.

Alcuni dati: a Londra il 50% delle nuove costruzioni devono essere “affordable housing” (case a prezzi accessibili). In Francia l’obiettivo è che il 20% dello stock abitativo debba essere sociale (non si adotta la percentuale solo per la nuova costruzione, ma la percentuale da raggiungere è sullo stock complessivo esistente). In Catalogna lo standard prescrive che dal 20 al 30% dello stock debba essere di edilizia sociale. Insomma in Italia per raggiungere un tale standard dovremmo avvertire BTP, Coop. Unica, Lorenzo Giudici, Fratini, Ligresti, Coppola, che da ora in poi, ci dispiace ma si possono costruire solo case di edilizia sociale in affitto a canone sociale.
La percentuale di alloggi di edilizia sociale in rapporto al totale di alloggi esistenti è:
in Olanda il 35%; in Danimarca il 19%, in Francia il 16% e in Italia in 4%.

In ultima istanza si tratta di liberare spazio a..

La città in comune

La qualità del vivere la città, il diritto alla città, è composta da una pluralità di caratteristiche e di possibilità, di fruizioni, funzioni e di invenzioni. Non può essercene una senza le altre. Ci vogliono tutte insieme, ed è la loro contemporanea presenza che ci dà il senso di cosa significhi vivere in modo soddisfacente in una città o di cosa dovrebbe e potrebbe significare: la casa ma anche i servizi, ma anche il tessuto connettivo, la qualità dell’aria e dell’acqua, del suolo, di tutto l’ambiente, i luoghi di incontro e di apprendimento, di cultura e d’arte, la creatività e la capacità di imparare. Tutti necessari come non si può dire che basti l’acqua o il cibo o la felicità da sole a farci vivere, sono tutte necessarie.
Purtroppo nella vita di tutti noi c’è l’esperienza simile seppur diversa di porte chiuse, giardini recintati, spazi e accessi negati: per proprietà, per prepotenza. Eppure la città nasce per la presenza di spazi comuni di scambio, di incontro. Senza quelli non ha senso avere una città.

“…la città è una proprietà comune dei suoi abitanti. E’, in senso economico, un bene pubblico… il valore astronomico assegnato al centro della città emerge solamente dal fatto che è al centro delle attività di milioni di persone. Loro, non i proprietari, hanno creato questi valori, che evidentemente appartengono ai cittadini” (Colin Ward)

Nei percorsi fra la ricerca di tutto quello di cui avremmo bisogno e il suo ottenimento, individuale o collettivo, ci imbattiamo nella privatizzazione di quelli che rivendichiamo come beni comuni. E’ l’accumulazione da espropriazione che significa espropriare qualcuno dei suoi beni o dei suoi diritti per l’accrescimento del capitale privato. I diritti che tradizionalmente sono stati proprietà comune vengono espropriati attraverso la privatizzazione. La privatizzazione dell’acqua impone che la si paghi a chi se ne è appropriato, e ora ne è proprietario o gestore, mentre tutti dovrebbero avere accesso a questo bene comune. Quando i settori pubblici, come la scuola o la sanità, si vedono sottratti i finanziamenti pubblici, sempre più persone devono rivolgersi al settore privato. E anche in questo caso qualcuno accumula grazie a questa privatizzazione. La proprietà privata della terra, la cui privatizzazione ha una lunga storia, da sempre ostacola la risposta universale ai più elementari bisogni di alloggio e di spazio sociale e pubblico. Ma blocca anche qualsiasi tentativo di salvaguardare e di proteggere l’interesse collettivo, in modo efficace e definitivo, dalla voracità insaziabile dei grandi proprietari e delle imprese immobiliari, che talvolta la pianificazione territoriale pubblica ha cercato di proporre. Anche l’inquinamento dell’aria e dell’acqua si configura come una privatizzazione, perché ci viene sottratta aria ed acqua di qualità da chi usa e deteriora questo patrimonio comune per il proprio vantaggio economico; basti pensare alle industrie che inquinano per risparmiare sui depuratori o per non spendere su innovazioni che permettano produzioni davvero pulite. L’accumulazione da espropriazione comporta la sottrazione di diritti universali, e la loro privatizzazione in modo che diventino una responsabilità individuale, invece che responsabilità sociale.

C’è più che un filo che lega la questione del diritto alla città e all'accesso alla terra (casa, servizi sociali, spazi pubblici e di comunicazione, spazi sociali e culturali) e le questioni degli elementi e dei processi naturali (acqua, suolo, aria, flora e fauna, ambiente, loro qualità e lotta agli inquinamenti, compresa la questione dei rifiuti e delle nocività), dei servizi a rete privatizzati o in via di privatizzazione (acqua, energia, trasporto pubblico, rifiuti, telefoni..). C’è la nostra vita a legarli e una domanda che li vede come premesse minime tutte necessarie e irrinunciabili.
Noi diciamo che sono beni comuni (in forma di risposte ai bisogni e in forma di qualità del vivere), ma c'è chi li vede e li tratta come risorse da sfruttare e come merci. E questo ci impone di affrontare anche le ragioni economiche della loro sottrazione: rendita fondiaria, profitto, tipo di produzione delle merci (cosa, quanto, per chi) in generale e la connessa generazione abnorme di rifiuti, questione nocività e tariffe, la produzione dell’ambiente costruito. E ci impone anche di affrontare chi e quali imprese, talvolta multinazionali, sono gli attori, i promotori di questi investimenti e gli accaparratori di profitti e rendite. E il ruolo della pubbliche amministrazioni in questo gioco. La centralità della rendita fondiaria nell'analisi del territorio risiede nel suo ruolo strutturale nel localizzare (o situare) le attività (e le classi sociali, gruppi sociali) sul territorio. Con tendenza alla segregazione sociale e funzionale.

In questi anni abbiamo visto nascere e crescere…
Lotte per l’accesso alla casa e ai servizi pubblici, contro gli sfratti e gli sgomberi, per spazi sociali e collettivi, contro le innumerevoli speculazioni immobiliari volte a costruire a spese di tutti per il vantaggio di pochi, contro gli inceneritori, i rigassificatori, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, contro l’elettrosmog, per la salvaguardia della nostra salute e della qualità dell’ambiente in cui viviamo e di cui facciamo parte, per la qualità del servizio e per i diritti dei lavoratori del trasporto pubblico locale, per la proprietà comune e la gestione pubblica di tutti i servizi: gas, elettricità, acqua, trasporto pubblico…ma anche dell’intero territorio..

Cosa hanno in comune?

Invece della città per pochi e della città divisa…

La città in comune

È fatta di infinite proposte possibili, ma anche di principi inviolabili e irrinunciabili:
- uguaglianza nella diversità, impedendo che presunte differenze escludano dai diritti;
- nessun diritto individuale o collettivo può comprendere diritti su altre persone (per esempio sulle donne), tali da pregiudicarne il diritto all’autodeterminazione;
- non è ammessa nessuna giustificazione alla violenza sulle donne e alla sottrazione del diritto di tutte all’autodeterminazione. Tre principi fondamentali: integrità fisica (del corpo femminile) come bene indisponibile; inviolabilità del corpo (femminile); autodeterminazione (delle donne);
- integrità fisica, inviolabilità del corpo (nessuna ammissibilità a nessuna forma di tortura), autodeterminazione per tutti (abbiamo sottolineato in particolare questi stessi diritti per le donne perché sono sotto attacco);
- non ammissibilità dello sfruttamento delle persone (nessun diritto individuale o collettivo può comprendere il diritto di sfruttamento di altre persone);
- non ammissibilità della distruzione e dello sfruttamento della natura e promozione di usi degli elementi naturali che garantiscano la loro riproduzione e così facendo la nostra stessa salute e benessere;
- uso comune dei beni e servizi territoriali senza che nessuno ne possa pregiudicare l’uso e la fruizione da parte degli altri attraverso la proprietà privata, la dissipazione, la distruzione o l’inquinamento;
- nessun confine per le persone; libertà di circolazione e di movimento per tutte;
- reddito (e servizi sociali, compresi casa e diritto alla città) per tutti.

La città come bene comune E’
La città in comune
[1] Una circostanziata critica alla realizzazione fiorentina del “Programma 20000 case in affitto” si trova nell’articolo pubblicato sul sito eddyburg: Marvi Maggio, “La casa a Firenze. Alloggi in affitto a che prezzo?” il 21.05.2006 alla pagina: http://www.eddyburg.it/index.php/article/articleview/6661/0/204/
[2] Ibidem.
[3] Gibelli, M.C., “Tre famiglie di piani strategici: verso un modello reticolare e visionario” in Curti F., Gibelli M.C. (editor), Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze, 1996.
[4] Regione Toscana, Giunta Regionale, Direzione generale delle politiche territoriali ambientali, Settore politiche abitative e riqualificazione degli insediamenti - edilizia residenziale pubblica, Verso lo statuto dell’edilizia sociale, settembre 2006.
[5] Ibidem, pag.9.
[6], “Intervista a Riccardo Conti, Assessore al territorio ed alle infrastrutture della Regione Toscana, di Leonardo Rignanese”, Urbanistica Informazioni, n.2007, maggio-giugno 2006, pag,69.
[7] Ibidem, pag.69.
[8] Vedi Lodovico Meneghetti, “La casa della città pubblica” in www.eddyburg.it.

15 marzo 2007

La legge non aiuta

Estratto da "il domani" del 15 marzo 2007

Un problema che non emerge

La legge sulle locazioni del 1998, ha introdotto un principio fortemente innovativo, e cioè la forma scritta obbligatoria per i contratti di affitto abitativi. La finalità dichiarata a suo tempo era quella di cercare di riconoscere maggiori diritti alle parti, sial al conduttore che al locatore, combattendo il fenomeno degli affitti in nero. Sin da subito in molti sorse il dubbio che la finalità sostanzialmente perseguita fosse in realtà un'altra, e cioè assicurare alle casse dello stato un gettito fiscalmente rilevante, e direttamente conseguente alla nuova forma obbligatoria del contratto.
Se il contratto è scritto, vanno applicate marche da bollo, ed è più complesso omettere sia la registrazione, che la dichiarazione dei redditi da fabbricati. Sia chiaro: somme dovute per adempimenti dovuti, e dunque nulla di irregolare nel perseguimento di giustizia fiscale.
Il punto è capire se, comunque, a fronte di un maggior onere per le parti, l'obiettivo dichiarato è stato o meno raggiunto.
La risposta è nei fatti. Non solo - dopo oltre otto anni di vigenza della norma - gli affitti senza
contratto continuano ad esistere, ma è pure gravemente peggiorata la situazione del conduttore.
Prima della L. 431/1998 chi occupava un appartamento pagando un canone senza contratto scritto poteva ottenere il riconoscimento dei suoi diritti dimostrando da un lato di occupare un alloggio, e dall'altro di versare un corrispettivo. Se l'affitto era sostenuto pro quota da vari soggetti, tutti questi erano da ritenersi conduttori. Oggi questi elementi non sono più sufficienti, perché anche se ricorressero le circostanze surrichiamata, il contratto sarebbe comunque invalido per difetto di forma scritta. Da ciò deriva che non c'è più un inquilini, ma un occupante senza titolo. E senza diritti. L'unica possibilità che ha il conduttore di essere riconosciuto tale, è quindi di dare la prova che sia stato il locatore a pretendere l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto; in questo modo, però, la parte debole è gravata di un complesso onere probatorio che in concreto ostacola la tutela dei diritti di chi paga un corrispettivo.
E che la possibilità dinanzi menzionata sia quanto meno di complessa percorribilità lo dimostra la pressoché totale assenza di contenzioso, a fronte della notoria sussistenza di un mercato di contratti di fatto. Se cioè prima della L. 431/1998 i contratti irregolari emergevano, e dopo la legge non più, questo vorrà pur dir qualcosa.
Che, cioè, la concreta attuazione della legge è contraddittoria con le premesse dichiarate dalla stessa e che, quindi, la attuale situazione è conseguente a quello che per il momento è contemporaneamente un obiettivo fallito ed un errore.
È per questo che l'evidenza che in questi giorni il problema degli affitti in nero ha assunto attesta un malessere vero. Il malessere di soggetti che hanno un bisogno primario, e cioè l'alloggio, e si trovano nella difficoltà oggettiva di far valere i propri diritti.
Particolare gravità ha poi il tema dei diritti nel caso di studenti o lavoratori fuori sede. Al di là di dichiarazioni di facciata, che lasciano né più né meno il tempo che trovano, è chiaro che ai contratti irregolari vanno assimilati anche le numerose locazioni con le quali un intero
appartamento viene locato ad uno studente fuori sede, nella perfetta consapevolezza che locali ed affitto verranno frazionati tra vari soggetti.
In questo caso, molto diffuso, parlare di subaffitto – quasicché l'intestatario del contratto
retraesse un reddito dall'immobile - è operazione intellettualmente non corretta.
A fronte di un quadro di ingiustizia diffusa è doveroso ogni legittimo sforzo per modificare le condizioni – anche se legislative - che lo rendono possibile. Per questo il Sicet è per gli affitti in regola e per una normativa che non ostacoli la regolarità. È giusto tutelare chi è costretto a lavoratore in nero, ma non può esservi dubbio alcuno che la tutela del diritto all'abitazione deve essere almeno di identica misura e natura, perché sempre di diritti primari si discute.

08 marzo 2007

chiudere i cpt, se non ora, quando?- note di commento sulla manifestazione nazionale

pubblichiamo il contributo dei compagni e delle compagne del tpo dopo la giornata del 3 marzo a bologna

Bologna, Tpo - Note di commento sul 3 marzo


Nota di commento
La grande manifestazione di sabato 3 marzo ci offre un’importantissima occasione di riflessione e discussione che, senza alcuna pretesa di sintesi complessiva vogliamo condividere con le reti e le soggettività di movimento. Queste note sono pensieri a voce alta, non impegnativi per nessuno ma, speriamo, stimolanti per il dibattito in movimento nel movimento.
Il punto di vista sarà parziale (perchè noi siamo solo una piccola parte dei movimenti) e di parte (perchè noi siamo "partigiani").
Innanzitutto i fatti.
sabato 3 marzo 2007 a bologna c’era moltissima gente. 10000 persone sono tantissime e danno un’impegnativa e risolutiva risposta all’interrogativo che da 24 mesi la nostra comunità politica affronta: quanto spazio politico vi sia lì, in basso a sinistra, chi sono i soggetti del conflitto e come sia possibile dare una prospettiva di massa ad esso superando in avanti la dialettica "conflitto - consenso"
la composizione sociale del corteo era giovanile, precaria e migrante (di prima e seconda generazione) e "metropolitana" ove con questa parola si intenda l’abitare un territorio complesso, distribuito e reticolare che ha come baricentro Bologna
il corteo era convocato da "alcune parti del movimento", cioè dai centri sociali e dal sindacalismo di base, ed ha visto la sostanziale assenza dell’intero sistema della rappresentanza politica e sindacale confederale
nessuno ha abbandonato il corteo ma, anzi, dopo aver subito due violente cariche dal Reparto Mobile di Padova esso si è unito nella difesa degli artisti&artigiani che hanno sabotato la strada
non c’era nessun parlamentare e lo spazio pubblico è stato completamente autorganizzato, autodeterminato e autotutelato.
A nostro parere il successo di questa manifestazione inaugura una fase di crisi costituente nel movimento a partire dalla messa in mora di processi di continuità con il vecchio ciclo no global I rappresentanti, le istituzioni di movimento e il linguaggio del precedente ciclo che a Bologna possiamo delimitare tra 1998 e 2004 sono stati progressivamente svuotati dall’interno e dall’esterno e non riescono più ad intercettare ciò che il territorio esprime Valga per tutti il dibattito sulla non inclusività del corteo: come si fa a sostenere che 10000 persone siano isolate? Come si fa a sostenere che l’esercizio del conflitto sia nemico dell’allargamento della lotta quando i fatti hanno dimostrato che migliaia di donne ed uomini sono disposti a lottare in prima persona senza accettare la politica delle delegazioni o dell’avanguardia interna che rappresenta il conflitto? Come si fa, infine, a rimpiangere che sabato "non sia successo nulla"?
La giornata di sabato 3 marzo e la composizione del corteo ci fanno dire che siamo già all’interno di un nuovo ciclo di movimento e che esso si articola dentro processi che scardinano stili ed equilibri degli anni passati.
Da Vicenza a Bologna, da Venaus alle Banlieues, dalla Sorbona alla Sapienza vediamo emergere cicli di lotta che esprimono tratti di comune in una pluralità di temi e di linguaggi politici. E su quanto vi è di comune dobbiamo insistere politicamente, nel riconoscere e nel farsi attraversare dalle molteplicità di pratiche di lotta e di conflitto.
I punti che ci sembra emergano in embrione da questo nuovo ciclo sono:
la collocazione europea come scelta soggettiva dello spazio politico
l’istituzione di pratiche di democrazia diretta come metodo di sovranità sul sè, sul territorio, sulla decisione politica
il ruolo centrale dei beni comuni come tema di sfondo del programma
la leggerezza e la flessibilità dell’organizzazione, intesa come strumento autonomo per le lotte e non come gabbia metafisica di processi di sintesi.
La manifestazione di sabato 3 ci dice anche che non è più il tempo dei processi di mediazione ma che, al contrario, è il momento di approfondire elementi di programma, esaltare la radicalità, mettere in crisi i processi organizzativi passati.
La sfida che emerge, potente e sovversiva, è quella di stare nella pancia dei diecimila di bologna, costruire le condizioni affinche nel segno del comune e della differenza emergano gli spazi e le forme di vita liberata, di emancipazione sociale, di redistribuzione della ricchezza che una moltitudine di soggettività, inquieta e desiderante, reclama qui e ora.


Bologna, mercoledì 7 marzo 2007
Le compagne ed i compagni del TPO
"ribellarsialpresenteèsovvertireilfuturo"